03 novembre 2019

Great Grandpa - Four Of Arrows ALBUM

Capita quasi sempre che le sorprese più belle vengano all'improvviso, quando e dove meno te lo aspetti. E' il caso del nuovo (secondo) album dei Great Grandpa, Four Of Arrows, che non solo testimonia una salto in avanti pazzesco rispetto agli esordi, ma al contempo ritrae la band di Seattle in una forma artistica che non temo di definire "stato di grazia".
Plastic Coughs, primo disco di Alex Menne e compagni, afferrava con forza quasi adolescenziale un nodo di urgenza comunicativa e lo gettava addosso all'ascoltatore senza in realtà dipanarlo: c'era alla base un power pop nutrito di Weezer, Pixies, Rilo Kiley, Third Eye Blind, The New Pornographers ed altre cento cose che fanno rumore e allo stesso tempo scintillano melodiche, tutto molto interessante e molto aggrovigliato. 
Four Of Arrows, che arriva due anni dopo ed è il frutto di una produzione mirata proprio a sciogliere quei fili senza perderne la forza comunicativa, risolve in modo così naturale ed efficace lo stile dei Great Grandpa, da farci pensare che all'improvviso è sbocciato un gruppo destinato (insieme ai Big Thief ed altri che non nomino qui) a segnare la sua impronta nella scena indie del decennio che va a iniziare. 
Dark Green Water, il pezzo che apre i 44 minuti dell'album, è una perfetta cartina di tornasole dell'idea musicale dei Great Grandpa: la struttura non è lineare, accelera e rallenta, ruggisce di elettricità e a tratti si silenzia a preparare un crescendo promesso che sembra non raggiungere mai del tutto l'apice, poggiando su una sezione ritmica (Carrie Goodwin e Cam Laflam) che sa essere solida e articolata. La voce di Alex - dolcissima e amarissima, sempre sul punto di rompersi, prepotentemente viva - funziona come collante fondamentale fra i capitoli della canzone stessa, ed è sempre lei che ci accompagna, senza soluzione di continuità, dentro il singolo Digger, che è il primo capolavoro del disco e spinge fino in fondo il climax emotivo costruito fin dal primo secondo dell'album. Qui è chiaro che i Great Grandpa stanno prima di tutto raccontando una storia - e lo faranno in ognuno degli undici episodi - e l'architettura di chitarre acustiche e poi distorte e poi di nuovo arpeggiate e infine irte come un muro attorno alla voce della Menne è in realtà la trama della novella intimamente dolorosa che stanno narrando. 
Se la successiva raffinatissima English Garden ha una dimensione quasi cameristica, con i suoi inserti di archi e la sua andatura quietamente rapsodica, con la morbida e ampia Mono No Aware i Great Grandpa tracciano la loro personale via al dream pop, rallentando i ritmi e riempiendo le trame placidamente inquietanti della canzone con suoni elettronici e voci sovraincise. Le chitarre tornano cristalline in Bloom, che è l'unico vero pezzo esplicitamente pop del lotto, nella struttura canonica e nel potenziale melodico, con una sorprendente e scenografica coda strumentale. Dopo la pausa contemplativa di Endling, dove ascoltiamo solo il pianoforte atmosferico di Pat Goodwin, i formidabili due minuti e mezzo di Rosalie - con l'incipit dimesso, l'inusuale schema tripartito e il crescendo inesorabile e quasi inatteso del finale (e qui siamo davvero dalle parti dei migliori New Pornographers) - fanno di nuovo alzare dalla sedia. E non ci si siede più: Treat Jar con la sua sfrontatezza da hit college rock anni '90 tiene alti i giri. Human Condition, con la sua costruzione franta e multicentrica ricorda le prime cose dei Great Grandpa. Split Up The Kids racconta in una dimensione folk ipnotica e commovente una parabola sul tempo che passa (la penna è quella, ispiratissima, della bassista Carrie Goodwin). La conclusione - Mostly Here - non può che essere nuovamente affidata alle montagne russe emozionali di un episodio che ha l'ambizione di spingere la propria durata e i propri orizzonti spaziali ben oltre i sei minuti. 
Album dell'anno, senza discussioni. 





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