25 dicembre 2018

Best Indie Pop Albums Of The Year 2018




12
Basement Revolver     Heavy Eyes 
  
Il dream pop più scenografico sulla piazza è quello dei Basement Revolver, da Hamilton, Ontario. La voce di Chrisy Hunt guida i crescendo sfrigolanti di chitarre che sono il marchio di fabbrica della band, con una strana e affascinante commistione di timida introversione e antemica energia.  


11
Avind     Evig Blenda

Dalla Norvegia una delle sorprese dell'anno. La misconosciuta band di Tonje Tafjord confeziona un album che sfiora la perfezione, suonando un guitar pop in salsa folk che alterna equilibrata leggerezza, crescendo emozionali e intimismo acustico. Liriche rigorosamente in norvegese, ma non è certo un limite. 


10
Dead Bedroooms     Bummer   

Semi sconosciuti e quasi impossibili da rintracciare nella sconfinata mappa dell'indie americano (vengono dalla Virginia), i Dead Bedrooms (o meglio "le", vista la netta maggioranza femminile) hanno esordito con un disco dal fascino magnetico, intimo e dinamico insieme, pieno di (ottime) idee e di grande sensibilità. 

Camp Cope     How To Socialise And Make Friends
Tra i dischi garage-pop dell'anno, le australiane Camp Cope vincono a mani basse: essenziali ma non lo-fi, chitarra basso batteria come stile e sostanza, Georgia Maq e le sue due compagne infilano nove pezzi di impressionante urgenza comunicativa, che suonano semplici senza in realtà esserlo.

Free Cake For Every Creature     The Bluest Star 
Katie Bennett e la sua band hanno fatto una rapida transizione: da un passato assolutamente a bassa fedeltà ad un presente ambizioso in cui le loro canzoni apparentemente svagate assumono una dimensione più ampia, complessa e levigata, senza perdere un grammo della leggerezza degli esordi. 

7 
Massage     Oh Boy
Nati quasi per gioco dall'incontro di due veterani del genere come Alex Naidus (ex The Pains Of Beeing Pure At Heart) e Michael Felix, i Massage ci insegnano con il sorriso sul volto che cosa è e dovrebbe essere l'indie-pop: leggerezza, amore per la melodia, la semplicità al potere. Come dei The Bats trapiantati negli States, la band macina con sorniona nonchalance luminose trame jangly di smagliante e quieta freschezza.  

6
Say Sue Me    Where We Were Together 


 Pochi gruppi quest'anno sono riusciti a farsi amare praticamente da tutti gli appassionati del genere come i coreani Say Sue Me. Merito senz'altro della disinvoltura con la quale i quattro di Busan si muovono tra velluto twee ed elettricità C86, nutrendo il loro guitar pop onnivoro di modelli distanti nel tempo e nello spazio. Catchy con educata sfrontatezza, gli asiatici sono quest'anno "la band indie pop di cui tutti parlano". E a ragione.   


5
Hater     Siesta
 I quattro di Malmo hanno deciso di puntare in alto: un album dalla dimensione ambiziosa (14 pezzi, un'ora di musica), una produzione ricca e attenta ai particolari e sopratutto un'idea di indie che sfonda i confini basso-bateria-chitarra jangly da cui venivano, esplorando i territori di un pop imprevedibilmente raffinato e - penso che ci intendiamo sulla definizione - molto "scandinavo". Che rischio, ma che risultato! Un po' Camera Obscura, un po' Alvvays, un po' cento altre cose belle, Caroline Landahl e i suoi si muovono con altera e sensuale sicurezza entro i confini ampi del genere, senza sbagliare una mossa.  


4
Holy Now    Think I Need The Light
 Quanto a personalità, Julia Olander e i suoi Holy Now ne hanno da vendere a pacchi. Nel giro di un paio d'anni gli svedesi hanno perfezionato il loro guitar pop costruendo uno stile subito riconoscibile e decisamente magnetico, tutto fatto di contrasti, rallentamenti ripartenze e crescendo: levigatissimo in superficie, ma con un cuore di ombre e bagliori notturni, melodico ma sottilmente obliquo, ruvido dentro e morbido fuori, restìo a farsi incaselare nella struttura canonica della three-minute-song e al contempo assolutamente immediato. 


 
3
Night Flowers    Wild Notion
 L'album d'esordio della band londinese arriva dopo almeno una decina di singoli sparsi nella loro (in verità recente) carriera, alcuni formidabili. Wild Notion però non sceglie la via facile (una compilation di cose bellissime ma già sentite) ed anzi osa con dieci pezzi nuovi che sembrano fatti apposta per essere scoperti a poco a poco e, alla fine, restare indelebilmente impressi nel cuore. Nella capacità di mischiare carezze dream pop ed elettricità shoegaze, la band di Sophia Pettit è al momento priva di veri rivali, senza debiti d'ispirazione con nessuno: non c'è episodio nel disco che non riesca alla fine a staccarsi da terra e a far librare le sue chitarre e la sua melodia nell'aria. 


2
Neleonard    Un Lugar Imaginado
  Sarebbe facile riassumere i Neleonard come i Belle and Sebastian spagnoli. In realtà la band catalana è molto di più di questo e vive una sua dimensione timidamente eroica. Con un grado di celebrità che è inversamente proporzionale rispetto al pazzesco livello di talento, Nele, Laura e compagni tengono botta e confezionano un secondo album che - possibile? sì! - è persino più entusiasmante del loro impagabile esordio, che qui è stato disco dell'anno nel 2016. Dodici episodi uno più bello dell'altro, solari e trascinanti, raffinatissimi nella loro gentile umiltà, pop nell'anima e nelle ossa, talmente pieni di vita da portarti via con loro ad ogni ascolto, in un mondo migliore. 


 

1
The Beths     Future Me Hates Me
 Potenti e terribilmente orecchiabili, i neozelandesi The Beths hanno mostrato con il loro album d'esordio di essere già dei veri fuoriclasse. Poco influenzati dalla celebrata scena autoctona e molto di più dall'indie americano dei '90 (dai Weezer in giù), Elizabeth Stokes e compagni suonano un guitar pop energico e intelligente, ironico e sbarazzino, tecnicamente ineccepibile, sorprendente e travolgente sotto tutti i punti di vista, pieno di cori, coretti, chitarre muscolari, ritornelli killer e cambi di ritmo, in 38 minuti di prodigiosa e liberatoria corsa a perdifiato. 

 



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