La collezione ci offre davvero uno splendido excursus dagli esordi nei club semideserti fino alla prima consacrazione. Muove giustamente da cose decisamente "raw" nell'approccio produttivo e arriva ad un pezzo che è probabilmente lo Zenith creativo di Berman e compagni. Ma procediamo con ordine...
Si comincia con una Kurt Cobain's Cardigan (uscita nel 2008 per la inglese Painbow, siamo davvero agli albori), che risuona a pieno di quel vitale ed entusiastico orgoglio post punk che era la benzina nel motore della band quando muoveva i suoi primi passi: i'll walk the lenght of your town / 'til there's no one around except us punks / The day we are not it's allright / so don't tell me it's the last night of our young lives.
Ottima premessa per una versione davvero primigenia di un classicone uptempo, sfrigolante e "catchy as fuck" come Come Saturday, che è stata una dei primi pezzi che i newyorchesi suonavano ed era già chiaramente destinata a diventare una delle loro signature songs.
Ramona invece - b-side del singolo Young Adult Friction, siamo nel 2009 - ci rivela alla perfezione quella capacità narrativa insieme tenera e sferzante che Berman ha sempre posseduto, in un pezzo che suona come un affascinante crossover di Belle & Sebastian e Jesus & Mary Chain: tell me a story i've never heard / with your pristine hand writing dirty words.
Anche The Pain Of Being Pure At Heart, la canzone che porta il nome della band, è una fotografia del gruppo al suo debutto. Quadrata, a suo modo solenne nel suo romanticismo adolescenziale che sovrappone Ramones e The Manhattan Love Suicides, nella sua antemica semplicità è, fra i tanti anthem scritti dal band, uno dei meno conosciuti e insieme il più spacca-cuore: we are so sure we will never die ripetono all'infinito Kip e Peggy. E come dar loro torto!
Sappiamo bene, d'altra parte, come l'intera prima parte della discografia della band di Brooklyn sia incentrata sulla tematica della "giovinezza infinita", del trovarsi su una soglia esistenziale che non si vuole attraversare, sul riconoscersi come parte di una minoranza di punk/nerd che trova senso solo nello stare insieme a suonare o ascoltare musica. E infatti Ponytail Forever (era la b-side di Come Saturday), che punk lo è nella dimensione e nell'essenzialità dei tre accordi, racconta esattamente questo, con il consueto spirito naïf: i just wanna hang around, not afraid of anything!
Sino a qui tutto quello che fu pubblicato prima del mitico album d'esordio.
Higher Than The Stars uscì invece nel settembre del 2009, quasi a completare idealmente un disco che aveva improvvisamente lanciato i TPOBPAH nell'olimpo dell'indie pop, facendoli diventare un piccolo fenomeno delle classifiche alternative di mezzo mondo. Il pezzo che dava il titolo all'epoca è uno dei capolavori della band e segna, nel suono, nella costruzione e nelle liriche, l'ingresso nella seconda era dei Pains: il paesaggio sonoro è di sfavillante e sognante morbidezza, i synth di Peggy Wang avanzano in prima fila, la dimensione è assolutamente quella del dream pop. La storia raccontata da Kip è ermeticamente malinconica, allude forse a un amore adolescenziale, e quando canta now you can't think straight, because you're not straight, in the back of her's mother car scatta qualcosa che ti fa venire voglia di piangere e di ridere di felicità allo stesso tempo.
103, Falling Over e Twins, i pezzi che ascotiamo di seguito (e che erano inseriti nell'ep accennato sopra), sono in modo evidente estratti dalle sessions dell'album, ma all'epoca furono lasciati fuori dal lotto (peccato soprattutto per Twins, che ha quel mood soffice e sfrigolante che domina il disco e tutto sommato ci sarebbe stata alla perfezione). Falling Over è forse la canzone più interessante, perchè esce dallo schema guitar pop consueto del gruppo e tenta una strada diversa, con il basso di Alex Naidus super protagonista a dare struttura a un pezzo quasi funkeggiante. E' un anticipo di cose che Berman farà (da solo) negli ultimi album.
Ok. Facciamo un bel respiro largo perchè adesso c'è da saltare sulle sedia.
Say No To Love uscì l'8 giugno 2010 come singolo che anticipava di qualche mese la pubblicazione dell'album Belong. A sorpresa non finì dentro quell'album, restando a in qualche modo intrappolata nello iato creativo fra il primo disco e il secondo. Fu però accompagnata da un video fatto con un budget di pochi dollari destinato a diventare iconico per i fan dei Pains: i tre maschi del gruppo che sprizzavano energia dai loro strumenti in un fienile in una campagna assolata, Peggy che da sola faceva una passeggiata a New York portando a spasso i suoi vent'anni e alla fine arrivava magicamente al luogo dove gli altri Pains avevano suonato, provava tutti gli strumenti come per gioco, e poi trovava il suo posto perfetto dietro le tastiere. Say No To Love è probabilmente il pezzo più sfrontato, rotondo, energetico e comunicativo che i quattro di Brooklyn abbiano mai scritto: l'anello elettrico e ideale in grado di tenere insieme i Jesus & Mary Chain, i Cure più scampanellanti e mezzo catalogo della Sarah Records, tirandoli giù da scaffali pronti a prendere polvere e frullandoli insieme in una gioiosa e post-adolescenziale giostra indie. Something's coming, but nothing ever does canta Kip, facendo un ritratto incredibile di come ci siamo sentiti tutti quando ci sembra che i nostri sogni si possano/debbano realizzare di lì a poco e invece ci tocca ricominciare da capo. Uno dei testi più pensosi che Berman abbia scritto, che però esplode in un fuoco d'artificio catartico con un antemico ritornello - "è meglio se dici no all'amore" - attorno al quale tutto (lo scampanellio delle chitarre, l'elettricità libera e distorta, la dinamica dritta del basso e della batteria) accende la luce ed illumina l'intero orizzonte.
Poche canzoni come queste ci costringono - direi fisiologicamente - a mollare tutto quello che stavamo facendo, alzare il sedere e spalancare tutte le finestre. I Pains volevano essere questa cosa qui: twee dentro, nell'anima, una bomba atomica melodica fuori.
Intendiamoci, non c'è nulla qui che un fan dei panie non abbia già ascoltato cento volte, ma la comodità di ritrovare tutto insieme, in un'infilata di canzoni tutte di grandissimo impatto, è un'esperienza impagabile. E noi non possiamo che ringraziare ancora con il cuore in mano la Slumberland non solo per questo regalo che ci fa, ma soprattutto per avere creduto in quei quattro ragazzi che nel 2008 suonavano musica rumorosa e romantica in club semideserti.